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Lampadina accesa

La storia del fotovoltaico:
il primo Novecento

 

Da Ciamician e Einstein fino alla prima cella fotovoltaica: ecco come il sole è diventato una fonte primaria di energia.

 

Nel 1912 W.C. Handy scrive Memphis Blues e per la prima volta Blues diventa un genere musicale. Nello stesso anno le registrazioni di The Squaw man inaugurano gli studi cinematografici di Hollywood. Il mondo che si sta preparando alla Prima Guerra Mondiale è un mondo che non vuole smettere di sognare.

Nel 1912 il professor Giacomo Ciamician all'VIII° Congresso Internazionale di chimica applicata a New York pronuncia un discorso destinato a restare negli annali della scienza: La fotochimica dell’avvenire. Non è solo un testo analitico sullo stato delle risorse energetiche e sul loro avvenire, ma un vero e proprio manifesto programmatico delle potenzialità offerte dall’energia solare a fronte di una progressiva decarbonizzazione. Ciamician per il suo lavoro sulla fotochimica e per queste sue aperture rivoluzionarie è considerato, a livello internazionale, un pioniere dell’energia solare in un periodo storico in cui - visti i venti di guerra all’orizzonte - buona parte dei suoi colleghi erano più interessati a concentrarsi su un utilizzo più massiccio di fonti fossili.

Anzi, dell’"energia solare fossile", come la chiama lui all'interno della relazione, sottolineando come proprio la fotosintesi abbia contribuito, in tempi geologici diversi, alla formazione dei giacimenti di carbone e petrolio. Passato e presente, nel mondo dell'energia, sono quindi uniti dal sole. Per raccontare la storia del fotovoltaico nella prima metà del Novecento bisogna ripartire da Giacomo Luigi Ciamician, pioniere del fotovoltaico italiano insieme a Pacinotti e Righi, a dimostrazione del ruolo centrale che il nostro Paese ha avuto e avrà anche nel secondo Dopoguerra nell’ambito delle energie rinnovabili. Ciamician, oltre alle sue ricerche sulla fotochimica, ha lasciato al mondo scientifico la certezza che la luce potesse diventare fonte non solo di energia, ma di nuovi materiali e di una vera e propria industria, pulita, grazie alla sua capacità di imitare la fotosintesi naturale con la sua potenza creativa.

In quel 1912 accade un altro fatto, piccolo ma curioso e capace di definire il clima dell’epoca. In Egitto l’americano Franck Shuman crea un impianto di specchi parabolici per far evaporare l’acqua e sfruttarne così l’energia. Una dimostrazione dell’aspirazione di tanti imprenditori e inventori a impiegare l’energia del sole come forza motrice, ma ancora nel verso sbagliato. Come aveva già fatto Archimede con i suoi specchi ustori, tra leggenda e storia. 

La spiegazione dell’effetto fotoelettrico

Mettendo però nel cassetto le invenzioni, più o meno avventurose, c’è una parte della scienza, come indicato anche da Ciamician, che continua a interessarsi degli effetti della luce sulla materia, sulla strada dell'effetto fotovoltaico individuato da Bécquerel.
Più nello specifico, il fenomeno dell’emissione di particelle cariche da parte di metalli sottoposti ad irraggiamento con luce ultravioletta, il cosiddetto effetto fotoelettrico esterno, era già noto da fine Ottocento, con gli studi di Hertz. Mancava, però, ancora una spiegazione plausibile. Provvederà un giovane fisico tedesco, Albert Einstein a suggerire la risoluzione attraverso la celebre equazione (E = hν - P) pubblicata nel 1905, dove E è l’energia degli elettroni emessi, ν, è la frequenza della luce incidente, P è il potenziale di estrazione degli elettroni dal metallo mentre h rappresenta la costante universale di Planck. A rivoluzionare la visione della luce sarà una parte ben precisa di questa formula cioè il quanto hν che indica la natura corpuscolare della luce. Un decennio più tardi, nel 1915, le misurazioni effettuate da R. A. Millikan confermeranno l’intuizione di Einstein, spianandogli la strada verso il premio Nobel. Mentre l’Europa era preda della Guerra, Einstein cambiava la fisica: la sua formula dell’effetto fotoelettrico da un lato influenzava la teoria dei quanti ma dall’altro diventava la base per la comprensione della trasformazione delle radiazioni solari in energia grazie all’interazione con la materia. La ricerca si orienta proprio su quest’ultimo punto e in particolare i materiali fotosensibili individuati nella categoria dei semiconduttori.

 

La prima cella fotovoltaica

Fu il germanio ad aprire la strada verso una maggiore comprensione dell’effetto fotoelettrico grazie all’applicazione del metodo di accrescimento inventato dal polacco Jan Czochralski che da un lato fu determinante nell’invenzione del transistor e dell’elettronica moderna e, dall’altro, alla comprensione dell’effetto fotovoltaico nei semiconduttori (il cosiddetto “effetto fotoelettrico interno”). Risultati ancora migliori si ottennero sostituendo il germanio con il silicio monocristallino: a questo lavorarono nell’immediato Dopoguerra i Laboratori Bell. Non è quindi un caso che proprio qui, nel 1953, venne assemblata la prima cella fotovoltaica, in silicio. L’efficienza di conversione era di poco superiore al 2%, ma grazie ad alcuni semplici migliorie tecnologiche arrivò in breve al 5%. A quel punto apparve chiaro che il fotovoltaico poteva diventare davvero una risorsa dal punto di vista della produzione energetica. La profezia di Ciamician stava finalmente prendendo forma.

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